VIVERE CON LO STRANIERO della Dott.ssa Giusy Giannone

Ho sempre visto il mondo come una grande torre di Babele. Ma una torre dove Dio ha mescolato non solo le lingue,ma anche culture e costumi, passioni e interessi, facendo del suo abitante una creatura ambivalente, comprendente in sé lio e il non io,se stesso e laltro, il simile e lestraneo” Kapuscinski (2007: 50 ).

L’Odissea narra delle vicende di Ulisse che, a seguito del naufragio, sporco di salsedine, nudo, ai limiti della mostruosità, approda sulle coste di Scheria e tra il panico generale viene accolto dalla figlia del re Antinoo, che  rivolgendosi alle ancelle dice: “Dove fuggite al vedere un uomo ? Pensate che sia un nemico? […] Ma questo è un infelice, giunge qui ramingo. Bisogna prendersi cura di lui ora […] e un dono anche piccolo è caro.” Lo straniero, non spaventa. Anzi nei suoi confronti i Greci si dispongono con tale ospitalità e apertura da renderlo automaticamente e in primo luogo ospite (xénos), sacro ed intoccabile.

Baudelaire ne il poemetto “Lo straniero” (1869) parla di “enigmatico uomo” per poi definirlo anche “straordinario uomo”. “Amo le nuvole… Le nuvole che vanno… laggiù, laggiù… le meravigliose nuvole!” Il poeta  nel suo personaggio dà adito a due tòpoi letterari legati alla figura dello straniero: quello che lo vuole misterioso privo di identità definita e definibile e l’altro secondo cui lo straniero non ha dimora fissa ma vaga alla ricerca di sé  rimanendo inappagato a seguir le nuvole.

F. De Andrè  nel “La guerra di Piero” dice che in guerra, lo straniero è colui che “ha il tuo stesso identico umore / ma la divisa di un altro colore”. La visione greca è completamente rovesciata qui, mentre la storia ha ancora un ruolo fondamentale: lo straniero è sì un uomo come noi ma ora è solo un nemico, deve essere ucciso. Esitare, compatire, sentirsi figli di una stessa matrice equivale a morire.

Camus nel 1942, col suo romanzo “Lo straniero” rileva una situazione particolare: ciascuno può essere straniero, estraneo anche nella propria società, se non addirittura a se stesso.

Kafka parla dello straniero nel romanzo  “Il Castello”(1973): “Lei non è del Castello, non è del paese, non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre tra i piedi, uno che vi procura un mucchio di grattacapi…“.

Nel film di Crialese “Terra ferma”, invece, lo straniero è chi ha più soldi di noi, straniero è chi controlla le risorse economiche quindi è erbaccia da estirpare, stranieri sono tutti e nessuno, e lo straniero non è vero che fa ancora paura, perché la paura è, come spesso accade, un pretesto, dove nessuno quasi può esimersi dal sentirsi un poco straniero in un mondo che ormai non gli appartiene.

E le sollecitazioni artistiche potrebbero continuare…. Ma per noi chi è lo straniero, l’immigrato?

Siamo nell’epoca della globalizzazione, un’epoca in cui le esperienze migratorie sono imposte dalle necessità dislocative dell’umanità. L’Italia ad esempio, da Paese di emigrazione è divenuta nel corso del tempo paese di immigrazione. Dal 1860 al 1980= 27 milioni di emigrati; oggi circa 1,3 milioni di immigrati. Eppure gli Italiani hanno messo in atto una clamorosa rimozione collettiva del proprio passato migratorio, come se fosse vergognoso.  I telegiornali ci tempestano di immagini di barconi pieni di ESSERI UMANI che, in un viaggio di speranza alla ricerca di un miglioramento economico, o di una maggiore sicurezza, giungono nelle Nostre terre…… e l’isola di Lampedusa diviene sempre più piccola…..  Lo straniero è oramai parte della nostra quotidianità, è il compagno o la compagna dei nostri figli a scuola, è il nostro vicino di casa, è il paziente con cui siamo chiamati a confrontarci, esposti al rischio di tramutare un’alterità culturale in un’alienità psicopatologica o, comunque, di misinterpretare il senso psicopatologico di un comportamento o di un insieme sintomatico (Risso, Böker, 2000 [1964];).  L’incrocio strutturale con altri e diversi sistemi culturali, largamente irriducibili al nostro chiede di imporsi alla nostra attenzione…… e noi abbiamo il dovere di ascoltare…. non per un astratto rispetto del “diverso” o adesione a un banale relativismo culturale che alimenta le scissioni, ma perché l’incrocio delle pluralità serba in sé la possibilità non utopica di «un altro mondo possibile» (Pignarre e Stengers 2005).

Anche la nostra comunità ficarazzese è investita del fenomeno immigrazione. Abbiamo molto favorevolmente accolto la presenza della comunità senegalese. E ciò sia per la nostra disponibilità all’accoglienza, ma anche per la capacità dei senegalesi di aprirsi al nostro mondo con simpatia e cordialità estreme. E l’incontro è sempre altamente e reciprocamente arricchente. Ci siamo progressivamente abituati ai loro sorrisi, ai loro bellissimi abiti, e anche alla loro arte culinaria. Eppure la cultura da cui provengono è molto diversa dalla nostra. Ascoltarli è affascinante, quanto inquietante….. perché espone ad un mondo popolato di spiriti, i “djinns”, << alcuni di loro sono buoni altri molto cattivi, li riconosci da un unico segno fisico: i piedi molto deformati>>. Questo mi racconta Robi, un loro rappresentante.  In Africa, non c’è il medico ma il guaritore. Egli è una figura carismatica, un uomo di Dio e non un mago. Opera attraverso riti simbolici, si avvale di strumenti molto semplici come l’acqua, assistito dalla comunità intera. Laddove il medico occidentale spesso permane in una atavica scissione tra corpo e mente di cartesiana memoria, il guaritore cura la persona  quale unità armoniosa tra mente e corpo. E poi che dire del fatto che la cultura senegalese prevede la poligamia….. sogno di tanti uomini occidentali….Ma d’altra parte, come dice Robi, non è forse vero che nella nostra cultura, gli uomini hanno una moglie e possibilmente qualche amante più o meno nascosta?….. invece loro vivono alla luce del sole…..  anche se ciò comporta croci e delizie!!!! Potremmo aprire una finestra sulla differenza tra uomini e donne nella nostra e nella loro cultura, ma ciò ci porterebbe molto lontano!!!!!!

Il fenomeno della migrazione invece mi porta a riflettere sulla costituzione della psiche e sul ruolo della cultura nella fondazione della mente. Le scoperte neuroscientifiche più recenti ci dicono infatti che il patrimonio genetico, quindi il nostro corredo biologico è responsabile solo in parte dell’espressività dei nostri geni, circa il 50%. La restante parte di noi ha determinanti socio-culturali! L’essere umano è destinato alla socialità dalla sua stessa biologia. La mente dell’infante per emergere necessita di un altro apparato psichico che dia senso e fruibilità alle sue stesse esperienze primarie, necessita di un apparato segnico simbolico, un apparato culturale, entro e attraverso il quale possa trovare strumenti di rappresentazione emotiva e simbolica …. Solo così riuscirà a costruire la propria interiorità. Winnicott, psicoanalista e pediatra, diceva che il bambino vede sé stesso riflesso nello sguardo materno (quando la madre è “sufficientemente buona”). Il bambino allora può identificarsi con quell’immagine amata di sé che emerge dallo sguardo della figura accudente. Ma, le pratiche di cura messe in atto dalle madri nei confronti dei figli differiscono da cultura a cultura; esse sono fin dall’inizio simbolicamente intessute, culturalmente  condizionate. La cultura infatti  forgia in modo implicito la mente e di conseguenza orienta i comportamenti, fin dagli esordi della vita. Essa è il codice che ci permette di leggere e categorizzare il mondo, di rapportarci con l’esterno, di interpretare e costruire un senso specifico per la vita e gli eventi, per giungere anche a una definizione peculiare di lecito o illecito, di normale o patologico. Come ha affermato Piero Coppo, cultura è tutto ciò che rende umano l’uomo, “[…] il neonato si immerge nella cultura per trasformarsi in persona”. Le idee si incarnano (embodiment), determinando la dimensione coevolutiva ed interattiva del triangolo cultura/mente/corpo. L’identità mantiene una sua capacità di evoluzione dinamica nella misura in cui trova sostegno nella cultura esterna che  la rispecchia. In altre parole l’individuo può produrre le proprie risposte nella misura in cui si trova in un ambiente nel quale quelle risposte possono avere un significato: ciò che penso io è simile a quello che pensa il gruppo a cui appartengo.

L’identità infatti è sempre relazionale, plurale, situata e dinamica, è relazione interiorizzata, auto-rappresentazione della relazione con gli altri: specchiandosi nello sguardo altrui il soggetto dipinge il suo ritratto interiore. Al di fuori dalla cultura non c’è nessun “uomo di natura”, né buono come pensava Rousseau, né cattivo come supponeva Hobbes: c’è solo un bambino che non può più crescere perché gli viene a mancare il contesto entro cui crescere è possibile. Come diceva Sartre “Ogni essere umano è situato nel tempo e lo spazio; ognuno di noi è insieme significato e significante; cioè produce dei significati, attribuisce un senso alla propria esistenza ma è anche, contemporaneamente, prodotto dal contesto e dagli altri”.

E allora mi chiedo….. gli immigrati, tanto vicini a noi fisicamente, sradicati dalla loro cultura (che come abbiamo visto è fenomeno fondante l’esistenza stessa), che significato attribuiscono alla lontananza dalle proprie origini, quali sono le loro idee, le loro gioie e le loro sofferenze…. Come affrontano la quotidianità in un mondo diametralmente opposto al proprio? La perdita degli oggetti, infatti, è totale, compresi i più significativi ed importanti: persone, cose, luoghi, lingua, cultura, abitudini, clima e, a volte, la propria professione e l’ambiente sociale ed economico cui sono legati ricordi ed affetti profondi. Alla perdita sono esposti anche parti del Sé ed i legami corrispondenti agli oggetti perduti.

Il migrante vive una serie di situazioni contestuali che lo costringono e lo spingono a  reinterpretarsi in continuazione e a ritoccare continuamente il proprio ritratto interiore. Questa serie di ritocchi non cancellano tuttavia il ritratto preesistente. Il mondo interiore del migrante è fatto come un mosaico di «colori» mentali che riflette la varietà delle sue situazioni di vita.  Un po’ come per i dipinti stratificati nel tempo, la persona è insieme diverse cose contemporaneamente e la sua identità non è riducibile a un’unica dimensione, ancor meno a una generica dimensione culturale che non spiega nulla.

Leon e Rebecca Grinberg  in “Psicoanalisi della migrazione e dell’esilio” sottolineavano come l’emigrazione costituisca in un certo senso una vera e propria esperienza di rinascita, con il rischio che l’impossibilità di ri-affiliarsi al nuovo universo di significazione in cui si è immersi comporti una insanabile ferita dell’involucro psichico. Il momento migratorio è infatti “cambiamento catastrofico”, bionianamente inteso: lasciare il proprio paese risveglia sentimenti di perdita e di sradicamento che incidono sul sentimento d’identità, provocando una crisi che potrà sfociare “in una vera catastrofe o, al contrario, tradursi in un’evoluzione arricchente e creativa, nel senso di una vera rinascita rigeneratrice“.

La migrazione è di per sé sinonimo di traduzione, intesa come transito fisico e intellettuale tra due mondi differenti, ne consegue che il migrante è, a sua volta, un “uomo tradotto”, soggetto a strutture sociali e culturali che non gli somigliano e costretto a pensarsi e percepirsi in una lingua non sua. L’esperienza migratoria diviene traumatica quando  vi è un’interruzione del rapporto di continuo scambio e rafforzamento reciproco tra cultura esterna e cultura interna, quando viene impedita la ri-significazione del mondo e di se stessi., quando la struttura simbolica “esterna”, ovverosia il contesto culturale di immigrazione, non coincide con la struttura “interna”, gli incorporati culturali di cui parla Rouchy, quando il migrante  non riesce più a rispecchiarsi. Ciò viene percepito come un attivo attacco da parte dell’ambiente esterno, una vera e propria effrazione della realtà interna che viene “violata”. La violenza simbolica, come la chiama Pierre Bourdieu, si esprime nel momento in cui c’è concomitanza tra la necessità individuale di sopravvivere psichicamente (il “dimenticare per vivere”, come sottolinea Augè) e l’implicita sottomissione a un forma di vincolo sociale e simbolico che impone di configurare la propria vita in una determinata maniera. “Il non riconoscimento o misconoscimento – scrive Taylor – […] può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito”.  Il cambiamento diviene catastrofico (Grinberg e Grinberg, 1990) quando il migrante si  ritrova nella frequente impossibilità di agire la propria cultura e la propria memoria. Il dolore allora nasce dentro al desiderio di connessioni, dentro la fatica di nuovi ancoraggi emotivi e di ricongiunzione con passaggi importanti della propria esperienza. L’emigrante ha dunque necessità di uno “spazio potenziale” che gli serva da “luogo di transizione” e “tempo di transizione” fra il paese oggetto materno ed il nuovo mondo esterno. Senza questo spazio, primariamente mentale, si genera ciò che De Martino chiamava la  fine del mondo : il “rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile”, la rottura del senso di continuità dell’esistenza..

Julia Kristeva diceva che “Vivere con l’altro, con lo straniero, ci mette di fronte alla possibilità di essere o non essere un altro”. Guardare sé stessi e la propria cultura con lo sguardo dell’altro è un esperienza che aiuta a costruire la propria identità, arricchendola di punti di vista, memorie, pensieri…. Questo vuol dire che occorre partire dalla molteplicità delle storie personali e anche dal fatto che, al di là della varietà delle forme espressive, esiste un’unità psichica del genere umano.  Non si tratta solo di una nostra disponibilità ad accettare  l’altro ma di essere al “posto suo”.  Solo la dimensione narrativa di sé può rappresentare un’ancora di salvezza per il migrante, solo la socializzazione dei ricordi, solo il trovare connessioni in un tempo frammentato in cui c’è un hic et nunc e un “là e allora” che ha lasciato indelebili tracce nel cuore e nella mente!!!!!!!!!!  Infatti, per dirla con P. Ricoeur (1993), l’identità è narrativa; è nell’atto del racconto – che si struttura nella vita vissuta di esperienze concrete (lavorare, studiare, formare una famiglia, ecc.) – che si costruisce il senso dell’esistere, poiché il soggetto del racconto sono io stesso, ma io stesso come un altro.

E pur tuttavia ritengo che spesso la condizione umana, gli stati affettivi  ed emozionali di molti di noi non sono tanto distanti da quelli dell’immigrato. Sono convinta, infatti che vi è una parte straniera in ciascuno, una parte che non sempre trova asilo, una parte inenarrabile, o non accolta dal contesto in cui viviamo. Come diceva  A.Tabucchi in un saggio sull’identità: «Siamo una valigia piena di genti». Tutti, immigrati e non, facciamo esperienza della dimensione intersoggettiva e dialogica soltanto all’interno dei rapporti umani reali e sociali, e soprattutto di quelli affettivi, senza i quali la costruzione della nostra identità e la possibilità di elaborare le varie tappe del riconoscimento del sé e dell’altro non sono pienamente concepibili e realizzabili. E’ necessario accedere alla propria dimensione plurale dell’io poiché ciò facilita l’incontro e il riconoscimento dell’Altro. Scoprire lo straniero che c’è in noi ci offre la possibilità di incontrarlo, senza scontrarci, all’esterno di noi.

Ciò cui auspichiamo perseguire è la logica del mare cui si fa riferimento nel film di Crialese “Terra ferma”, è ispirarci all’esemplare metafora consegnataci nel film: “Un lugar en el mundo” di Adolfo Aristarain (premio oscar come miglio film straniero, 1993), di cui si fa portavoce uno dei protagonisti del film, un mineralogo che sa intendere il discorso delle pietre, riconoscendone la storia, ciò che le ha segnate. Al pari di quelle pietre, ciascuno di noi reca sul suo corpo, nella sua voce, le tracce nascoste del proprio passato e della propria origine, presenti anche quando ricoperte da innumerevoli strati o detriti, essi stessi segni di altri trascorsi e di altri luoghi. Scoprire quelle tracce e quelle origini richiede un lavoro minuzioso ed uno sguardo paziente e una luce particolare capace di illuminarle.

Dott.ssa Giusi Giannone per Ficarazzi Blog



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