LIMONI MESSICANI, PELATI CINESI, PESCE AFRICANO. E LA SICILIA?

Si racconta che i militi della forestale, unico esercito regolare della storia della Sicilia – protezione di alberi, ambiente e Palazzo dei Normanni – siano stati sguinzagliati per trattorie e ristoranti tre anni or sono circa dal presidente della Regione per svolgere controlli trinariciuti, essendo arrivata a Palazzo d’Orleans una soffiata: nell’Isola si era infiltrata impunemente una partita di uova di pesce non siciliano.

I soldati della forestale – non sapremmo come chiamarli altrimenti – eseguirono la disposizione con scrupolo, ma non bastò perché la missione avesse successo. Anzi, pare che sia finita a malafiura. Non per colpa dei militi, ma perché era come cercare l’ago nel pagliaio. Immaginate la faccia dei ristoratori, cui venne chiesto di dimostrare la provenienza delle uova di pesce. Stupore, incredulità. O… “scherzi a parte”?

Naturalmente ce la “mmiscarinu”, come si dice in dialetto siciliano. Il problema restava, tuttavia. La grande distribuzione da una parte, le grandi truffe dall’altra minacciavano il prodotto siciliano. Lasciarono andare per la loro strada le uova di pesce e si studiò una strategia che tracciasse i prodotti della terra e del mare. Un buon proposito, indubbiamente. Non senza rischi, però.

Non è una passeggiata scovare coloro che intrallazzano. Sono tanti e si trovano in ogni settore;anche nel vino, che pure gode con pieno merito di grande considerazione, dopo alcune malandrinate di alcuni anni or sono.

Come si fa a sapere che cosa c’è davvero dentro una bottiglia di vino e se il vino è siciliano, del tutto o in parte? La chimica ha raggiunto livelli così sofisticati da competere con i vigneti, figuriamoci se ci si propone di scoprire l’origine del vitigno, o dei vitigni, che compongono “quella” bottiglia, e non un’altra. Il rischio, dunque, è che si finisca con il regalare l’identità siciliana a chi non se la merita, sicché – qualcuno pensa – sarebbe meglio ritirarsi su un fronte più sicuro, come la bontà del prodotto fabbricato in Sicilia. O puntare, su un mercato locale, il frutto genuino coltivato nella vicina campagna.

E’ solo un aspetto, nemmeno il più grave della guerra alla contraffazione. Che cosa accadrebbe se i gamberoni di Mazara del Vallo, la marineria più importante d’Italia, venissero dal Mozambico? Ci rifiutiamo di crederlo, ma se costa meno importare i gamberoni dal Mozambico che pescarli sul canale di Sicilia per mille ragioni, il rischio che i pescatori si trasformino in importatori esiste e come. Del resto i pelati cinesi hanno invaso le pizzerie senza destare scandalo, e la pizza è rimasta siciliana al di là di ogni ragionevole dubbio.

Alcuni giorni or sono la bouvette di Palazzo dei Normanni è stata oggetto di aspre critiche, perché dei deputati regionali si sono acorti che consumava limoni su cui era stampigliata l’origine messicana. Che è una prova di onestà commerciale. Noi facciamo le leggi per favorire la commercializzazione ed il consumo dei nostri prodotti, protestarono i parlamentari, e perfino all’Ars consumiamo alimenti americani? Fecero l’iradiddio. Ci sarà andato di mezzo il ragazzino della spesa, incaricato di acquistare i limoni, che della legge non sapeva niente, e nemmeno del marchio sui limoni?

La Camera di Commercio di Palermo nell’ultima riunione della giunta ha deliberato la creazione di un marchio di tutela e pubblicità del prodotto siciliano, nell’ambito della lotta alla contraffazione alimentare. Tutela dell’autenticità, buona comunicazione. Ci vorranno soldi, molti soldi, così c’è chi si è chiesto se ne valesse la pena di investire nel “protezionismo”.

Gigi Mangia, presidente dell’Associazione pubblici esercizi di palermi e vicepresidente regionale della Federazione Pubblici Esercizi, è il più autorevole rappresentante degli scettici. “Piuttosto che un marchio, bisogna organizzare i sistemi, pretendere buona qualità, fare opera di divulgazione fra i giovani, le famiglie, la scuola”, suggerisce Mangia, che di mestiere fa il ristoratore. “Bisogna avere attenzione sui danni che il cibo senza identità procura alla salute dei consumatori, invece che puntare sul patriottismo. La cultura della legalità e della buona tavola non si ottiene attraverso il marchio…”

Mangia non è un bastian contrario per carattere. Ha solo deciso di non starsene a guardare. “Se non si mette un freno”, avverte, “finisce che i pescatori siciliani divengono distributori di prodotti altrui, importatori. Guadagnano di più, senza rischio e poi, magari ci mettono il marchio, costato un occhio della testa, ai gamberoni cinesi senza testa”.

Che fare, perciò? Gigi Mangia parte da lontano. “La lotta alla contraffazione è anche lotta all’illegalità. Che però non è solo mafia, così come la legalità non è solo antimafia. Se crediamo che i cattivi siano solo i boss e fuori ci siano angioletti, siamo proprio fuori strada. L’alimentazione è il terreno giusto per capire quel che succede, quanto diffusa sia l’illegalità e quanto danno faccia alla salute dei cittadini. Occorre un codice etico nella somministrazione degli alimenti. E chi sbaglia paga”, conclude Mangia. “Saranno i consumatori a punire gli autori delle truffe, prima che i tutori della legge”.

Fonte Sicilia Informazioni .it

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